Chi elude un posto di controllo dalla Polizia Locale, alla luce delle ultime sentenze della suprema Corte di Cassazione, viola il reato di resistenza a Pubblico Ufficiale?
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Per integrare il reato di resistenza a Pubblico Ufficiale non vale la mera resistenza passiva o la fuga, ma è necessario che vi sia un comportamento diretto a impedire l’azione dell’organo di polizia con gesti tali da indurre una desistenza e non solo mediante violenza diretta, ma anche con azioni tali da mettere in pericolo la vita di terzi. Quindi, come chiesto, la condotta di chi elude un controllo (e già il termine eludere postulerebbe un comportamento non violento, né minaccioso) può determinare la violazione dell’articolo 192 del Codice della Strada e non anche quella dell’articolo 337 del Codice Penale che prevede l’uso di violenza o minaccia.
Infatti la Cassazione (Corte di Cassazione Penale sez. VI 5/4/2017 n. 170619) ha precisato, accogliendo il ricorso del condannato, che “mette conto di rilevare come il reato di resistenza a pubblico ufficiale postuli, giusta il chiaro dato normativo, la “violenza” o la “minaccia” per opporsi all’atto d’ufficio o di servizio, il che presuppone – quanto alla prima ipotesi – un vero e proprio impiego di forza da parte dell’agente e quanto alla seconda ipotesi – l’attuazione di un comportamento percepibile come minaccioso, in entrambi i casi volto a contrastare il compimento dell’atto del Pubblico Ufficiale. Se ne inferisce che il delitto non è configurabile nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta di mera resistenza passiva, come nel caso egli si dia semplicemente alla fuga, ovvero (ma si tratta di fattispecie che non viene in rilievo nel caso di specie) quando si limiti a divincolarsi come una reazione spontanea ed istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale.
Nondimeno, come la Corte ha avuto modo di chiarire, integra l’elemento materiale della violenza del delitto di resistenza a pubblico ufficiale anche la condotta del soggetto che si dia alla fuga alla guida di una autovettura, allorquando egli non si limiti a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponga deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (Sez. F, n. 40 del 10/09/2013, dep. 2014, E., Rv. 257915).
In tale caso, l’autore del fatto non si limita a tentare un commodus discessus a bordo di un mezzo di locomozione e dunque a sottrarsi all’atto dovuto del pubblico ufficiale, ma tiene un comportamento di guida integrante di per sé – in considerazione della pericolosità delle manovre attuate per seminare gli inseguitori e della messa a repentaglio dell’incolumità di essi e degli altri utenti della strada – gli estremi della “violenza” o comunque della “minaccia” rilevanti ai fini della integrazione della fattispecie incriminatrice in parola. Pur allontanandosi dai pubblici ufficiali, l’agente pone, difatti, in atto nei loro riguardi o comunque della collettività (la cui incolumità e sicurezza sono tenuti a proteggere gli operanti), una condotta aggressiva o comunque minacciosa seppure attuata mediante il mezzo di locomozione – al fine di indurli a soprassedere dal compimento dell’atto d’ufficio e, dunque, realizza un’intenzionale opposizione ad esso.
In questo senso, la Corte ha avuto modo di affermare che, nel reato di resistenza a pubblico ufficiale, la violenza o minaccia deve consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all’atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione; sicché, in mancanza di elementi che rendano evidente la messa in pericolo per la pubblica incolumità e l’indiretta coartazione psicologica dei pubblici ufficiali, l’agente non deve rispondere di tale reato (nella specie, il soggetto, alla guida di un’autovettura, non si era fermato con il segnale “rosso” ed aveva tentato di sottrarsi all’inseguimento degli agenti, viaggiando ad elevata velocità) (Sez. 6, n. 35448 del 08/07/2002, dep. 2003, P.M. in proc. De Santi, Rv. 226686).
È ovvio che la demarcazione fra una condotta di fuga meramente passiva, non dante luogo al reato de quo, ed una condotta di fuga invece connotata da sia pur minimi tratti di offensività o di messa in pericolo dell’incolumità personale di terzi (pubblici ufficiali o estranei), integrante invece la fattispecie, postula un attento e puntuale accertamento delle modalità esecutive del comportamento di guida tenuto dall’agente, che potrà ritenersi sussumibile nell’ipotesi di cui all’art. 337 cod. pen. soltanto allorquando risulti volto non meramente ad eludere, a sfuggire passivamente, ma ad intralciare attivamente l’atto d’ufficio del pubblico agente, con una condotta violenta o comunque lato sensu intimidatoria, volontaria e diretta a tale scopo.
In ossequio al principio di diritto testé delineato, giudica il Collegio che, nella specie, non possa ritenersi provato – al di là di ogni ragionevole dubbio che l’imputato sia fuggito agli operanti tenendo una condotta di guida tale da porre deliberatamente in pericolo l’incolumità personale degli agenti inseguitori e della collettività e, dunque, da integrare la contestata resistenza.
Secondo la ricostruzione storico fattuale operata dai Giudici della cognizione, il ricorrente si limitò a condurre il motociclo in modo imprudente, ma non per questo – almeno per quanto dato genericamente conto negli atti di P.G. utilizzati ai fini della decisione del giudizio abbreviato e compendiati nelle sentenze di merito – tale da integrare gli estremi del reato ex art. 337 cod. pen.. Ed invero, come si legge nella decisione di primo grado, la responsabilità dell’imputato per il reato in oggetto è stata argomentata sulla scorta della considerazione, del tutto vaga, che egli poneva “a serio repentaglio l’incolumità fisica degli agenti“; nella pronuncia d’appello in verifica, si è fatto riferimento, in termini altrettanto approssimativi, ad una condotta “obbiettivamente pericolosa“, “imprudente e non rispettosa delle regole della circolazione stradale” ed al fatto che, abbandonato il motociclo, l’imputato aveva tentato “di proseguire la fuga a piedi“.
Ritiene il Collegio che, tenuto conto dell’evidenziata mancanza di indicazioni specifiche quanto alle manovre in concreto attuate dal B. nel frangente e soprattutto – all’effettiva messa in pericolo dell’incolumità personale altrui, anche alla luce del tenore della imputazione elevata nella quale è contestato al ricorrente soltanto di essere fuggito “a velocità elevata”, non possa ritenersi provato con certezza che l’imputato abbia posto in essere una sia pur minima forma di violenza o di minaccia volta ad impedire l’atto del pubblico ufficiale. Difetto di prova non superabile nell’ambito di un’eventuale giudizio di rinvio, trattandosi di procedimento “allo stato degli atti” e, dunque, basato delle sole emergenze degli atti di P.G. già contenuti nel fascicolo processuale.”
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