COSA HA DETTO LA CORTE DI CASSAZIONE
Cass. Pen. sez. IV, ud. 20 aprile 2022 (dep. 2 maggio 2022), n. 16817
Secondo quanto è stato evinto dalla lettura delle conformi sentenze di merito, al fatto aveva assistito un testimone che, provenendo dal senso di marcia opposto a quello del ciclomotore, si era fermato per consentire al pedone l’attraversamento della strada; tuttavia, dalla direzione di marcia opposta proveniva il ciclomotore condotto dall’imputata, postina in servizio, la quale aveva investito la donna; quest’ultima, ottantanovenne, aveva riportato gravi lesioni che l’avevano condotta alla morte da politrauma cranico; dai rilievi eseguiti dalla polizia municipale era emerso che, a distanza di 6,5 metri dalle strisce pedonali, era presente una traccia ematica riferibile alla vittima e che non vi erano tracce di frenata ma che, in prossimità del punto d’urto, vi era una vettura parcheggiata sul margine destro della carreggiata rispetto alla corsia di pertinenza dell’imputata. La stessa imputata aveva ammesso di percorrere la strada ad una velocità non superiore a 30 km/h; aveva anche dichiarato di aver indossato gli occhiali da sole, trattandosi di una strada che percorreva da tredici anni con altissima frequenza, onde era ben consapevole della circostanza che avrebbe avuto il sole in posizione di abbagliamento. Ciononostante, non aveva visto la presenza della donna.
I Giudici di Piazza Cavour, preliminarmente, hanno osservato che l’unico motivo di appello sottoposto all’esame della corte territoriale tendeva ad ottenere l’assoluzione sul presupposto che le particolari condizioni ambientali (segnatamente la barriera visiva creata dai raggi solari, la presenza di un’auto parcheggiata che nascondeva il pedone, l’immediato arresto del ciclomotore dopo l’urto) avrebbero reso inesigibile una diversa condotta e, in particolare, che l’imputata arrestasse la marcia. È stato, così, devoluto al giudice di appello il difetto dell’elemento soggettivo del reato, la rimproverabilità del fatto all’imputata. E, considerato che la regola ricavabile dal combinato disposto degli artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, c.p.p., dispone che non possano essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, a meno che si tratti di questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio o di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (ex multis, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Rv. 270316; Sez. 5, n. 28514 del 23/04/2013, Rv. 255577), è stata desunta l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, concernente l’incertezza dei dati probatori dai quali è stata ricavata la velocità di marcia del ciclomotore. Tale questione non risultava essere stata devoluta al giudice di secondo grado, né emergeva che la difesa avesse formulato richiesta di perizia, sostanzialmente non contestando quanto dichiarato dalla stessa imputata nel corso del giudizio di primo grado a proposito della velocità di marcia tenuta. I giudici avevano comunque valutato tale dato in conformità alle dichiarazioni dell’imputata.
Con riguardo al secondo motivo, con il quale si era dedotto che i giudici di merito avrebbero desunto la velocità che sarebbe stata adeguata con giudizio ex post, gli Ermellini hanno ritenuto trattarsi di un motivo manifestamente infondato. All’imputata era stato addebitato di aver omesso di rallentare o arrestare il proprio ciclomotore in presenza di strisce pedonali poste in corrispondenza di una chiesa in un tratto urbano connotato da scarsa visibilità. Tale addebito aveva condotto a ritenere che i giudici di merito non avessero attribuito rilevanza dirimente, ai fini della colpa, alla velocità di marcia, peraltro pacificamente contenuta nei limiti legali. Per converso, si era addebitato all’imputata di non aver rallentato ulteriormente né arrestato tempestivamente la marcia in presenza di una serie di circostanze che, in quel dato momento e in quel dato luogo, avrebbero suggerito e consentito al conducente prudente di tenere un comportamento diverso. I giudici di merito avevano, infatti, evidenziato una serie di elementi che si presentavano, ex ante, come immediatamente percepibili dall’imputata: l’andamento rettilineo del tratto stradale, la presenza di veicoli provenienti dall’opposta direzione di marcia fermi in corrispondenza delle strisce per consentire al pedone di effettuare l’attraversamento, la presenza di raggi solari abbaglianti. Solo in aggiunta a tali elementi, e al fine di ricostruire l’esatta dinamica del sinistro, avevano richiamato le ulteriori emergenze istruttorie, ossia l’arresto del motociclo sul posto, l’assenza di tracce di frenata, il posizionamento della ruota anteriore del ciclomotore circa 2,5-2,7 metri dopo le strisce pedonali, la traccia ematica lasciata nel punto in cui il pedone aveva battuto la testa sul manto stradale 6,5 metri dopo le strisce pedonali, desumendone con valutazione logicamente corretta che la versione fornita dall’imputata fosse verosimile nella parte in cui aveva dichiarato di non aver visto la presenza del pedone e di aver frenato dopo aver sentito un urto vicino al portapacchi anteriore del motorino. Non era, dunque, in discussione la violazione dei limiti di velocità, quanto piuttosto l’adozione di una condotta di guida particolarmente diligente e prudente a fronte della piena consapevolezza, ammessa dalla stessa imputata, della necessità di gestire in quel tratto di strada il rischio “abbagliamento” in coincidenza con un attraversamento pedonale. Rischio ben noto, al punto da rendere esigibile dal conducente di rallentare la marcia fino ad arrestarla in tempo utile ad evitare l’investimento del pedone.
Le considerazioni che precedono hanno fornito sostegno ai Giudici della Cassazione anche al giudizio di inammissibilità della censura proposta nel terzo motivo di ricorso, con la quale si lamentava la violazione dell’art. 45 c.p. e il vizio di motivazione sul punto. Con riguardo a tale ultimo profilo di doglianza, è stato ritenuto valido il rilievo dell’omessa deduzione di specifica doglianza in appello, cosicché la sentenza impugnata non aveva fornito espressa motivazione in termini.
In merito alla dedotta violazione di legge, hanno rammentato i Giudici che il caso fortuito consiste in quell’avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d’improvviso nell’azione del soggetto e che, nemmeno a titolo di colpa, può farsi risalire all’attività psichica dell’agente (Sez. 4, n. 6982 del 19/12/2012, Rv. 254479).
Come era stato precisato in altra occasione, il caso fortuito si verifica quando sussiste il nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento, ma fa difetto la colpa, in quanto l’agente non ha causato l’evento per sua negligenza o imprudenza; questo, quindi, non è, in alcun modo, riconducibile all’attività psichica del soggetto. Ne consegue che, qualora una pur minima colpa possa essere attribuita all’agente, in relazione all’evento dannoso realizzatosi, automaticamente viene meno l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 45 c.p. (Sez. 4, n. 1500 del 17/10/2013, dep.2014, Rv. 258482; Sez. 4, n.19373 del 15/03/2007, Rv. 236613).
I giudici di merito avevano analiticamente esaminato, sulla base delle circostanze del caso concreto, se l’evento potesse ritenersi causalmente riconducibile a fattori totalmente estranei a colpa dell’imputata. La difesa aveva sostenuto che l’abbagliamento costituiva la riprova del caso fortuito e che la Corte territoriale avrebbe valorizzato, per confutare la tesi difensiva, elementi incerti e congetturali, quali la prossimità di un luogo di culto, l’orientamento trasversale dei raggi solari o l’assenza di indizi che il pedone abbia attraversato in modo repentino o improvviso.
Tale censura, oltre a porsi in contrasto frontale con un principio già affermato dalla medesima Sezione della Corte (Sez. 4, n. 17390 del 21/02/2018, Rv. 272647, ove si afferma che l’abbagliamento da raggi solari non integra caso fortuito), si confrontava solo parzialmente con il tenore della decisione impugnata, ove si era sottolineato che la stessa imputata aveva ammesso di conoscere molto bene il tratto stradale che percorreva, caratterizzato dalla presenza di strisce pedonali e di un luogo di culto, nonché di aver più volte sperimentato in quel punto “l’effetto abbagliamento”, già presente oltre 5 metri prima della fine delle strisce. La circostanza che il pedone non attraversasse la strada in modo repentino o improvviso era stata desunta, piuttosto che da valutazioni congetturali, dal fatto che i conducenti dei veicoli che si trovavano sulla opposta corsia si erano fermati per favorirne l’attraversamento.
La sentenza impugnata aveva fatto una corretta applicazione di tali principi.
Alla luce di tali affermazione ne è derivata l’inammissibilità del ricorso con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
I Giudici di Piazza Cavour, poi, tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n.186 del 13 giugno 2000, hanno rilevato come non sussistessero elementi per ritenere che la ricorrente avesse proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, a norma dell’art.616 c.p.p., condannandola al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, nella misura di euro 3.000,00.
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