Parcheggio irregolare e violenza privata – a cura del Dott. R. Pullara

16 Marzo 2015
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Nella variegata casistica cui la realtà di ogni giorno ci pone di fronte si collocano anche quegli episodi che, originati da una (magari banale) violazione al Codice della Strada, sfociano di poi in una fattispecie dai contorni penalmente rilevanti. Intendiamo oggi occuparci di quella ipotesi in cui un errato parcheggio da parte dell’automobilista travalica gli usuali confini dell’illecito amministrativo per tramutarsi nel ben più grave reato di “violenza privata”. Parliamo di vetture rimaste “bloccate” a causa dell’altrui condotta scorretta all’atto del parcheggio: scene cui ormai si è abituati ad assistere o da cittadini o da operatori delle forze di Polizia.
In siffatte evenienze la giurisprudenza ritiene che integri il reato di cui all’art. 610 del c.p. (1) (appunto rubricato “Violenza privata”) la condotta consistita nell’aver parcheggiato la propria autovettura dietro quella della persona offesa e nell’aver posto un rifiuto all’invito di quest’ultima di spostarla per potersi allontanare: trattasi, infatti, di condotta idonea a costituire una coazione della persona offesa a un comportamento non liberamente voluto (così Cass. n. 24614 del 2005).
Il reato in questione – su cui pare opportuno spendere qualche breve cenno – sebbene di carattere “sussidiario” (in quanto punibile solo ove la condotta non sia specificamente prevista come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato) mira infatti a tutelare la libertà morale dell’individuo, ossia la libertà psichica (di determinazione e azione in maniera autonoma) del soggetto passivo.
Più in particolare, è stato chiarito che il requisito della “violenza” si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione cosicché la vittima sia, in parole povere, “costretta a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà” (così Cass. n. 3403 del 2003).
La “minaccia” (che può anche non essere esplicita) di cui parla la norma consiste invece in “un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa” (Cass. n. 7214 del 2006), così riducendo o azzerando la sua capacità di determinarsi liberamente.

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